imagealt

Letteratura e identità nazionale

“Nel 700° anniversario della morte di Dante (1321), va ricordato come Croce, Gentile e Gramsci si siano confrontati con l'importanza del Padre della lingua italiana nel complesso rapporto tra arte e filosofia. In che modo la letteratura può contribuire alla vita pubblica e all'identità di una nazione?”

 

La lingua è propria solamente dell’essere umano: distingue la nostra specie dalle specie animali. La parola ci permette di esprimere i nostri bisogni, le nostre esperienze, le nostre idee e, soprattutto, di dialogare con altri essere umani e confrontarci con loro. La diffusione della lingua italiana nel nostro Paese è stata profondamente influenzata dall’invenzione della radio e della televisione. Le annunciatrici dei programmi televisivi, i presentatori e gli speaker, che conducevano i telegiornali e gli altri programmi, frequentavano corsi di dizione, ed erano obbligati a parlare solamente la lingua italiana, attenendosi a regole grammaticali precise. Ma il sogno di una lingua unica per tutta la nostra penisola era presente già molti secoli prima di queste invenzioni. Proprio quest’anno abbiamo ricordato il 700° anniversario della morte di Dante, denominato dai critici il “Padre della lingua italiana”.

Il problema dell’unità linguistica è stato presente per molti secoli in Italia. La nostra nazione è arrivata all’unità solamente nel 1861, dopo anni di guerre e battaglie. Ma l’omogeneità culturale è ancora lontana: per quanto l’Italia sia geograficamente e politicamente unita, in essa sembrano voler continuare a regnare le differenze fra le regioni, e la popolazione continua ad essere sostanzialmente un ammasso di popoli diversi, non solo per l’attaccamento a tradizioni e lingue diversi tra loro, ma anche per uno scarso senso di vera unità. Insomma, “fatta l’Italia bisogna fare gli italiani”. La causa principale di questa disomogeneità linguistica era la divisione della penisola italiana in Stati differenti e indipendenti l’uno dall’altro, ognuno con un proprio dialetto. Gli intellettuali hanno cercato in diverse occasioni di trovare una lingua “nazionale” da utilizzare nelle opere, indipendentemente dallo Stato in cui esse venivano scritte, ma non era una soluzione così semplice. Dante, Manzoni, Bembo... sono solo pochi dei tanti scrittori illustri che avevano a cuore questo progetto.

Per Dante la lingua capace di unire l’Italia doveva essere il fiorentino trecentesco, lingua che lui stesso ha utilizzato nella Divina Commedia. Il suo esempio è uno di quelli con il maggior successo: infatti, molti scrittori a lui successivi sono andati a Firenze con lo scopo di “sciacquare i panni in Arno” (modo di dire che si deve ad Alessandro Manzoni, usato per indicare la sua volontà di sistemare la lingua de “I Promessi Sposi” per adattarsi il più possibile alla lingua fiorentina, considerata la lingua italiana per antonomasia). Dante è l’autore grazie al quale l’Italia si può vantare di avere il maggior trattato di linguistica dell’età medievale, il “De vulgari eloquentia”, scritto in latino, con lo scopo di illustrare le caratteristiche del volgare illustre. Il sommo poeta aspirava a una presa di coscienza sulle potenzialità della lingua, sulla sua utilità e sulle sue funzioni. Protagonista dell'opera è la lingua volgare, che viene definita dall'autore “cardinale,” perché deve essere comune tra tutti gli abitanti della penisola; “aulica”, perché il volgare sia parlato anche nella corti più nobili; e infine “curiale”, perché le sue regole devono essere fissate dalla "Curia", cioè l'insieme dei saggi, degli intellettuali e dei sapienti d'Italia.

L’importanza del pensiero dantesco è tale da suscitare l’interesse di alcuni filosofi novecenteschi, tra i quali ricordiamo in particolare Gramsci, Gentile e Croce. Il primo, dopo esser stato incarcerato nel 1926 dalla polizia fascista, chiede di poter avere una copia della “Divina Commedia”, che riceverà però solo nel 1928. Ha fatto questa richiesta per poter attuare una critica sul canto X dell’Inferno, il canto degli eretici, generalmente noto per la presenza di Farinata degli Uberti. Il soggetto principale del canto è dunque il dialogo tra Dante e Farinata, entrambi molto attivi nella vita politica fiorentina. Attraverso le loro parole si ripercorrono le tappe della storia fiorentina, in particolare le lotte tra fazioni.Gramsci “rovescia” il soggetto del canto, indicando come personaggio principale Cavalcanti, e non Farinata, che diventa il vero eroe nella critica. Farinata risulta essere superbo e fiero, mentre il suo compagno di pena è caratterialmente opposto. Nel dolore provato da Cavalcanti, quando crede il figlio defunto, risiede il reale contrappasso destinato agli epicurei. Non è un caso che il filosofo si trovasse in prigione quando ha scritto la critica al canto: il carcere amplifica il tasso di identificazione-emozione, creando un legame più intimo tra Gramsci e il Sommo Poeta.

Gentile, invece, si concentra sul Dante che ideava l’Italia unita già sotto Arrigo VII, secoli prima del 1861. Infatti, il sommo poeta propone più volte, nella “Divina Commedia” ma soprattutto nel “De Monarchia”, la “teoria dei due soli”, imperatore e Papa. Secondo questa ipotesi, il primo avrebbe detenuto il potere politico, il secondo quello spirituale; e nessuno dei due doveva interferire nella sfera di potere dell’altro. Il personaggio di Arrigo è presente nel Paradiso: è “l’uomo saggio” a cui Dante allude. L'imperatore, profetizza Beatrice, scenderà in Italia per ristabilirne il buon governo quando il paese non sarà ancora pronto a riceverlo e lo caccerà come un neonato che muore di fame e allontana la balia, a causa della cieca cupidigia. Gentile delinea due possibili chiavi di lettura per la Divina Commedia: come opera filosofica tra razionalismo tomistico e misticismo, o come simbolo della nazionalità italiana.Nelle opere di Dante, infatti, ci s'imbatte spesso in episodi che presagiscono il futuro e in visioni che, per il modo in cui sono descritte, hanno il carattere di fenomeni mistici. Nella Commedia, l’autore racconta più volte di sogni che l'avrebbero illuminato su quanto era accaduto. Dante si rifà anche al tomismo di San Tommaso D'Aquino, tradizione di origine aristotelica, in cui egli accoglie l'unione di fede e ragione: infatti la fede nelle cose rivelate viene sostenuta dalla loro dimostrabilità nella realtà.

Croce ha l’intento di consigliare la modalità di lettura della Divina Commedia, “se si è realmente intenzionati a capirla”. Questo intento è esplicitato nell’introduzione dell’opera “La poesia di Dante”, in cui è scritto: “Introduzione metodologica alla lettura della Commedia […] per riportare gli sguardi verso ciò che è proprio ed essenziale nell’opera di Dante”. Molti commettono l’errore di leggere il poema come fosse la rappresentazione dell’aldilà ma questo, per Croce, “non è veramente il motivo dominante nella poesia della Commedia”, perché il giudizio di Dante non è divino bensì morale. Dai dialoghi con i dannati traspaiono dei sentimenti d’amore, odio, amicizia e inimicizia, ed è questo che poi rimane impresso al lettore, più delle singole pene infernali. Croce rintraccia come unità vera della poesia lo spirito poetico di Dante. Questa visione dell’opera dantesca coincide perfettamente con l’idea di intuizione lirica, cioè la capacità di esprimere non solo l’intuizione ma anche il sentimento che questa suscita, l’intuizione lirica è tipica dell’arte, espressione dell’estetica. Il potere della letteratura era già noto molto prima di Dante. Ai tempi dell’antica Roma, Augusto commissiona a Virgilio l’opera “Eneide”, con lo scopo di rivendicare le origini divine della gens Iulia e di dare a Roma una fondazione dignitosa, che rendesse giustizia alla sua grandezza e esaltasse la sua potenza militare e politica.Anche in tempi più recenti gli scrittori si sono rivelati fondamentali: si pensi alla propaganda fascista e al ruolo di D’Annunzio (memento audere semper…), chiamato per ideare dei motti e delle espressioni che sono poi passati alla storia. Il “problema della lingua” è, in realtà, più attuale che mai: si pensi all’Unione Europea e alla recente Brexit. Sebbene nell’Unione Europea le lingue siano 24, l’inglese, è quella che viene utilizzata in prevalenza a livello istituzionale, sia in forma scritta che orale. Sembra una contraddizione: il Regno Unito non fa più parte dell’UE, mentre l’Irlanda non è tra i sei Paesi fondatori. L’inglese è però la lingua più studiata a livello europeo, soprattutto tra le nuove generazioni: la scelta della lingua anglosassone è dunque giustificata.

  

Avere costumi, usanze, ideali comuni è l’ingrediente fondamentale che crea unità in un popolo, che fa sentire i cittadini parti di una stessa comunità. La letteratura è uno strumento fondamentale per il raggiungimento di questo scopo: non solo aiuta a diffondere la lingua, ma anche gli ideali. La letteratura contribuisce dunque alla formazione morale e civile dell’individuo, che matura e cresce ponendo le basi per una società futura migliore, ma che non dimentica la storia passata.

 

Dante, dunque, è a tutti gli effetti considerabile uno dei padri fondatori della lingua italiana, sia grazie ai suoi pionieristici studi sulla lingua volgare, sia sull’elevazione della stessa a lingua letteraria. L’italiano è uno tra i pochissimi casi di idioma moderno impostosi per prestigio letterario. La diffusione del volgare fiorentino su tutta la penisola non è, infatti, derivata dall’affermarsi di una convenzione o da scelte politiche (come, ad esempio, nel caso del francese), ma dal sedimentarsi nel corso del tempo di una cultura letteraria di elevatissimo profilo. Da Dante a Boccaccio, dal Petrarca al Pulci, a partire dall’Umanesimo e poi per tutto il Rinascimento e l’età moderna, il fiorentino (ma già comunemente considerato a tutti gli effetti “italiano”) si impone gradualmente come lingua letteraria dominante nella penisola e non solo. L’italiano diviene, infatti, una lingua diffusa nelle corti europee, nella diplomazia internazionale, nella musica e nelle arti. E’ grazie al passaggio da lingua a letteratura, da strumento ad arte, che un idioma può davvero divenire un veicolo per la formazione morale e civile dell’individuo e della comunità di cui è parte. E proprio grazie all’esempio del Dante saggista, poeta e politico possiamo davvero esserne consapevoli .Egli ci insegna che la lingua del “volgo”, resa letteratura, può essere allo stesso tempo espressione di sublimi versi poetici, di lucida analisi politica e fabbrica della cultura. A 700 anni dalla sua morte, nell’attuale contesto di incertezze, tra le ombre di un possibile declino e le opache prospettive di rinnovamento, non possiamo non immaginare un parallelismo all’Italia di Dante a ai suoi insegnamenti, poiché, come affermavano i suoi contemporanei, “noi siamo come nani sulle spalle di giganti, così che possiamo vedere più cose di loro e più lontane, non certo per l'acume della vista o l'altezza del nostro corpo, ma perché siamo sollevati e portati in alto dalla statura dei giganti” (Giovanni di Salisbury, Metalogicon, Libro III, Capitolo 4).

 

 Anna Angeleri - VB scientifico