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“L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento”

La Costituzione italiana stabilisce apertamente di voler incentivare lo sviluppo della cultura e della ricerca scientifica, ribadendo che lo Stato Italiano è uno “Stato di cultura”, cioè una struttura politica attenta a tutelare la crescita culturale, indispensabile per un reale progresso umano. Tra i molti articoli che si soffermano su questo aspetto, sono forse il numero 9 e il 33 quelli che meglio affrontano la questione, recitando rispettivamente: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica”; “L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento”. Non è dunque un caso che, quando il 18 ottobre 1946 venne iniziata la discussione sui principi dei rapporti culturali, i due testi furono argomentati contemporaneamente. La tematica culturale si impose così come un argomento di interesse nazionale, destinato ad essere oggetto di discussioni anche future. In particolare, animato fu il dibattito riguardo al primo comma dell’art. 33, rivolto ad impedire allo Stato la possibilità di controllare, indirizzandole, le attività artistiche e di ricerca scientifica, da affiancare con un insegnamento libero, svincolato da condizionamenti politici, religiosi ed ideologici. Proprio la questione della libertà della scienza, però, avrebbe suscitato nel corso del tempo molte problematiche di natura etica e morale. Scritta nel 1948, infatti, la Carta Costituzionale sembra aver trascurato gli esiti che un uso sconsiderato delle tecnologie scientifiche può comportare, dimostrando quanto la consapevolezza dei Padri Costituenti fosse, per ovvi motivi, limitata al riguardo.

Al contrario, l'impetuoso sviluppo scientifico degli ultimi decenni ha reso quanto mai attuale la tematica del rapporto tra scienza e potere, chiamando in causa almeno due aspetti di tale delicata questione: da un lato la relazione tra uomo e natura; dall'altro il margine di intervento che i poteri forti possono assicurarsi rispetto alla ricerca scientifica. Il fatto che tale dibattito sia emerso prepotentemente solo in epoca recente si spiega alla luce della storia del sapere scientifico. L'idea che la conoscenza scientifica possa fornire all'essere umano un crescente controllo sulla natura è infatti relativamente moderna: nell'Antichità e nel Medioevo non solo il sapere scientifico veniva spesso misconosciuto e ricondotto a pratiche magiche, ma si basava essenzialmente su una speculazione teorica. Nonostante già gli alchimisti (XV/XVI secolo) avessero tentato in un certo senso di modificare la natura secondo le proprie esigenze, il primo a coniugare teoria e pratica fu il filosofo inglese Francesco Bacone (XVII secolo): secondo lui la conoscenza scientifica non doveva essere fine a se stessa, ma garantire all'essere umano una migliore capacità di piegare la natura a proprio vantaggio. Per quanto distante cronologicamente, la visione dell'intellettuale inglese anticipò quella stretta correlazione tra scienza e tecnica che la rivoluzione industriale avrebbe imposto. Non solo, fu la convinzione baconiana, con la sua dimensione di sfruttamento della natura, a far emergere per prima un interrogativo ancora oggi irrisolto: devono esistere limiti all'indagine scientifica?

Attualmente, a discutere i problemi morali che scaturiscono dalle scienze biomediche è la cosiddetta bioetica, disciplina che all'epoca di Bacone era ben lungi dall'essere anche solo pensata (il termine “bioetica” comparve per la prima volta solo nel 1970). Tuttavia, il tema del rapporto tra sapere e potere continua ad essere di estrema attualità. Guardando all'epoca moderna, uno degli eventi che ha contribuito a stimolare una sensibilità in questo senso è stato indubbiamente il raggiungimento della capacità di riprodurre artificialmente una copia di un essere vivente, dimostrata nel 1996 con la nascita della pecora Dolly. L'evento ha destato l'interesse dello Stato italiano, che nel 1997 con un'ordinanza ministeriale ha vietato qualsiasi tipo di clonazione. Tuttavia, poiché dal 2002 l'ordinanza non né stata reiterata, tale pratica è oggi consentita in Italia sugli animali, avviando ad un dibattito ancora più controverso: quello della clonazione umana. A tal proposito è bene distinguere la pratica terapeutica, che ha per scopo la produzione di embrioni oggetto di ricerche mediche (legale in Gran Bretagna per gli enti che abbiano ricevuto specifico riconoscimento dal governo), da quella riproduttiva, che mira invece alla proliferazione della specie. In Italia, la tecnica è vietata per legge in ogni sua forma, secondo la convinzione etica che, come già affermato da Hans Jonas, filosofo tedesco naturalizzato statunitense di origine ebraica, in “Cloniamo un uomo: dall'eugenetica all'ingegneria genetica” (1997), la possibilità di applicare la pratica è “la più schiavistica forma di manipolazione genetica” e rientrerebbe nel progetto di eugenismo, cioè di perfezionamento genetico di una razza. In aggiunta, nonostante la clonazione umana esista già in natura (nascita casuale di gemelli identici), quando avviene spontaneamente essa non è ovviamente coinvolta dalle osservazioni di tipo etico e morale: mentre la pratica naturale origina fortuitamente soggetti con patrimonio genetico identico, se applicata artificialmente essa consentirebbe di eliminare qualsiasi elemento causale implicato nel processo del concepimento e di nascita. Che cosa significherebbe dunque, per il clone stesso, essere tale?  L'interrogativo non ha ad oggi nessun tipo di risposta, lasciando aperto uno scenario che sembra sfociare nel fantascientifico.

Se la clonazione umana non ha ancora conosciuto un seguito, però, altre scoperte dell'ingegneria genetica hanno trovato applicazione, suscitando altrettante perplessità. È il caso degli Organismi geneticamente modificati (OGM): nonostante la loro nascita abbia costituito spesso un vantaggio in agronomia (alcune piante di questo genere sono per esempio più resistenti ai parassiti), infatti, altrettanti sono i rischi che il loro impiego comporta. Cosa succederebbe, per esempio, se le colture OGM prevalessero su quelle “normali”?

L'eventualità di clonare individui e la possibilità di modificare il genoma di alcuni esseri viventi costituiscono solo alcuni esempi delle frontiere che la la ricerca scientifica può varcare, ma sono sufficienti a comprendere la difficoltà di stabilire fin dove sia lecito che la scienza si spinga ad indagare. A preoccupare maggiormente è probabilmente l'imprevedibilità degli effetti sul lungo termine che le singole scoperte possono avere (basti pensare quanto successo con le intuizioni sul nucleare applicate in ambito bellico). Tuttavia, ritengo che il nodo centrale della questione non sia tanto imporre limiti alla ricerca scientifica in sé, ma comprendere che i suoi esiti dipendono esclusivamente dall'uso per cui essa è impiegata. A tal proposito, Rita Levi Montalcini, Premio Nobel per la medicina (1986), membro della Pontificia accademia delle scienze e senatrice a vita italiana, ha affermato: “La scienza non deve avere linee di confine: il problema reale non riguarda i rischi connessi alla scoperta, ma il suo non corretto impiego”. Il sapere scientifico non è infatti altro che un meraviglioso strumento, ma come tutti gli strumenti necessita di essere usato con cognizione di causa, nella consapevolezza che un suo impiego sbagliato può incidere molto negativamente sulla società.

Milena Perduca, 5B Scientifico)