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Riflessioni degli alunni della Quarta Liceo Linguistico

Liceo Peano

Classe IV Ling.

Aereo 

un rosario 

di gente che traballa 

nella 

quasi notte 

e alla pioggia 

lascia 

polvere d’altro

in un’indifferenza 

che strangola 

il respiro 

(Camillo Sangiovanni) 

 

Riflessioni sul conflitto Russia Ucraina

 

…nella pancia del mostro

 

 

“Mio Dio, sono tempi tanto angosciosi. Stanotte per la prima volta ero sveglia al buio con gli occhi che mi bruciavano, davanti a me passavano immagini su immagini di dolore umano. Ti prometto una cosa, Dio, soltanto una piccola cosa: cercherò di non appesantire l’oggi con i pesi delle mie preoccupazioni per il domani, ma anche questo richiede una certa esperienza. Ogni giorno ha già la sua parte. Cercherò di aiutarti affinché Tu non venga distrutto dentro di me, ma a priori non posso promettere nulla. Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che Tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare Te, in questo modo aiutiamo noi stessi; l’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che certamente conti, è un piccolo pezzo di Te in noi stessi, mio Dio. E, forse, possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini. Sì, mio Dio, sembra tu non possa far molto per modificare le circostanze attuali ma anch’esse fanno parte di questa vita. Io non chiamo in causa la tua responsabilità, più tardi sarai Tu a dichiarare responsabili noi. E quasi a ogni battito del mio cuore, cresce la mia certezza: Tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare Te, difendere fino all’ultimo la tua casa in noi. Esistono persone che all’ultimo momento si preoccupano di mettere in salvo aspirapolvere, forchette e cucchiai d’argento, invece di salvare Te, mio Dio. E altre persone che, ormai ridotte a semplici ricettacoli di innumerevoli paure e amarezze, vogliono a tutti i costi salvare il proprio corpo. Dicono: “Me non mi prenderanno”. Dimenticano che non si può essere nelle grinfie di nessuno se si è nelle Tue braccia. Comincio a sentirmi un po’ più tranquilla, Mio Dio, dopo questa conversazione con Te. Discorrerò con Te molto spesso, d’ora innanzi, e in questo modo ti impedirò di abbandonarmi.

 dal Diario di Etty Hillesum 

Preghiera della domenica mattina (12 Luglio 1942) 

pag. 36 

 

La nostra riflessione sul conflitto tra Russia e Ucraina ha avuto una “partenza” un po' diversa dal comune modo di aprire un momento di considerazione su ciò che sta accadendo. Abbiamo dato i numeri: 2.349 km separano l'Italia dall'Ucraina, ci è venuto spontaneo tracciare una linea sulla carta geografica e disegnare un arco con il dito indice e collegare Kiev a Roma.  Subito dopo, ci siamo guardati negli occhi con la nostra prof. di Filosofia e Storia. Non siamo partiti dalle parole, ma dagli sguardi, perché abbiamo sentito che soltanto da queste "finestre" potevamo partire, rimbalzando stati d'animo che, solo in seconda battuta, hanno trovato la via per esprimere, attraverso un ragionamento, attraverso un "dire”, qualcosa su questa COSA così grande che si chiama guerra. E all’interno di una presa di coscienza di una situazione ampiamente documentata dalla lettura di quotidiani, di video, di servizi della Televisione di Stato e non, ci siamo profondamente interrogati sulla modalità di ricezione delle notizie che il mondo riceve sul conflitto in corso. Abbiamo anche capito quanto la corsa alla cronaca, minuto per minuto, sia pesantemente ansiogena al punto che dopo ormai venti e più giorni di conflitto, la grande macchina mediatica, come già accaduto per la pandemia o qualunque altra grave realtà che si abbatte sul mondo, finisce per dare consistenza ad un effetto paradosso e si arriva, in atteggiamento di profonda onestà a convivere come una sorta di drammatica “abitudine” alle immagini, alle voci, alle sirene, ai cieli grigi di fumo, al verde militare dei carri armati…certo tutto ci tocca, niente ci sfiora. 

Perché, in fondo, noi non siamo là, siamo qui.  

E, scegliendo, ancora una volta, il linguaggio non verbale, cercando occhi, immaginando dietro le nostre FFP2 labbra disegnare il nostro essere attoniti, abbiamo ascoltato la nostra prof. leggerci un brano scelto dal Diario di Etty Hillesum

La parola speranza ci è sgorgata dagli occhi e dal cuore, prima ancora di pace, come l’unico antidoto a non cadere nella retorica del no war, speranza ci sembra un vocabolo molto più adatto al suo contrario: guerra. Un mondo di pace, deve, anzitutto essere un mondo di speranza e le mani imploranti dei cittadini e delle cittadine dell’Ucraina, le mani aperte e tese verso il cielo, le mani disarmate delle donne, dei vecchi, dei bambini, sono, secondo noi, le mani nude e senza odio, mani armate soltanto della bandiera giallo-blu che, ormai da settimane, riempie i nostri occhi. 

In classe ci siamo soffermati sull’articolo di Marco Tarquinio pubblicato su Avvenire sabato 5 marzo 2022. E abbiamo preso coscienza, semmai ancora ve ne fosse stato bisogno, che quelle mani alzate e “vuote d’armi” come ha scritto il giornalista, non sono una resa all’arroganza, ma la conferma al mondo che nessuno- qualunque conquista faccia, qualunque conquista faccia, qualunque misfatto continui a compiere- potrà vincere la guerra che insanguina l’Ucraina. Quelle mani nude alzate gridano al cielo e alla terra e se proprio il mondo è chiamato ad aiutare gli Ucraini, lo dovrà fare soccorrendoli a disarmare l’odio di tutti. Di tutti.  

Ecco il motivo che ci ha portati a scegliere le parole di Etty Hillesum, parole che anche di fronte allo sgretolamento dell'individuo, vogliono "gridare" il silenzio che, come in questi giorni espresso dal poeta contemporaneo Guido Oldani, sarebbe auspicabile nella nostra realtà piena zeppa di giornalisti che trattano la guerra come fosse uno dei loro abituali talk shaw. Noi non possiamo ridurre questo conflitto a questa cosa qui, non accettiamo, dai nostri banchi di scuola, che il disastro in corso sia dipinto con battute e frasi ad effetto. Noi non abbiamo nessuna ricetta, non possediamo soluzioni per l'immane tragedia che colpisce il popolo ucraino, così come non le aveva Etty. Tutto ciò non significa che il nostro modo di "leggere" la realtà sia quietistico e ingenuo. Noi, dal nostro piccolo cantuccio, sappiamo bene di non essere e avere alternative, non ne capiamo poi molto di geopolitica e strategie militari, neppure ci è stata data la chiave per entrare con competenza nella politica, ma crediamo che se siamo qui, seduti tra questi banchi, allora possiamo dire di sapere, in qualche modo, fare nostra la resistenza all'urgenza degli eventi. Il che comporta un vero e proprio atto di eroismo e quella lungimiranza che solo chi guarda le cose da un punto di vista universale possiede.

"Forse le cose che accadono attorno a noi sono troppo grandi e troppo diaboliche perché si possa reagire con rancore e con un'amarezza personale" (Diario, pag. 167).

Abbiamo altresì riflettuto su quanto possa apparire "scomodo" l'irenismo di Etty Hillesum, abbiamo familiarizzato con la parola pace che deriva dal greco: Eipnvn, Eirènê e ci siamo convinti che la risposta che si merita il mondo non può essere solo politica.

Nello stesso tempo, una riflessione che non ne tenga conto, risulterebbe monca e, a questo proposito, la nostra prof. ci ha letto alcuni brani del libro La felicità della democrazia, un dialogo di Ezio Mauro e Gustavo Zagrebelsky (Editori Laterza, 2011).

A pag.203 del libro si legge: in queste partite che si svolgono davanti a noi è in gioco il destino di quei popoli e di quei Paesi, ma è in gioco, in qualche modo anche l’anima democratica dell’Occidente. Che deve, prima di tutto, dimostrare di averla, vigilando perché la guerra non diventi un sostituto della politica e della diplomazia…

La parola democrazia è “delicata” e lo abbiamo capito studiando la Rivoluzione francese e le sue contraddizioni; ma,a pensarci bene, di questa “delicatezza” ci aveva parlato lo scorso anno Platone nella sua Repubblica: democrazia è una parola piena di promesse, dal tempo in cui duemilacinquecento anni fa, in Occidente, si è cominciata la riflessione sull’organizzazione politica delle società umane e di questa riflessione ci è rimasta memoria, è una parola di quelle che camminano e ha fatto un lunghissimo viaggio ideale; abbiamo compreso che c'è vita nella democrazia, che dunque è giusto e possibile cercarvi anche la felicità.

Che viene dalla nostra normale condizione di cittadini fedeli e infedeli, uomini e donne, persone liberamente associate. Proprio qui sta la possibilità della vera felicità; nella condizione di libertà personale e civile che nasce dalla democrazia, nella consapevolezza che tutti- e non soltanto io-esercitano quella libertà e ne riconoscono il limite.

Abbiamo altresì letto in classe un articolo di Gianni Santamaria comparso su Avvenire, Letteratura domenica 6 marzo 2022.

Abbiamo oltrepassato uno stargate e siamo andati nel decennio 1923-’33 e vi abbiamo trovato la Storia nella stroria: Samchuck, la Grande Fame ucraina raccontata in presa diretta.

Lo scrittore Ulas Samchuck scrisse un romanzo sulla carestia indotta da Stalin che uccise milioni di persone nel 1932-1933. Subito insabbiato, aiuta a capire la fiera resistenza di Kiev ai russi.

In vista del centenario, ci è sembrato opportuno riportare integralmente l’articolo e il brano del romanzo, una voce letteraria che merita di essere ulteriormente valorizzata:

 

Per capire la strenua resistenza degli ucraini all’attacco russo è necessario andare alla memoria dei tempi sovietici. E in particolare alla carestia indotta da Stalin nel biennio 1932-33, che causò milioni di morti, almeno cinque. Ed è impressa nel cuore del Paese. Sono poche le famiglie ucraine che non abbiano un parente scomparso in quella tragedia. L’Holodomor ('uccisione per fame') è, però, ancora meno conosciuto da noi degli altri massacri del Novecento. Anche la grande fame - come i ghetti, i campi di sterminio e le grandi deportazioni di massa ha avuto il suo scrittore-testimone. Si tratta di Ulas Samchuk (1905-1987), del quale presentiamo qui sotto un brano tratto dal romanzo Maria. Cronaca di una vita, scritto a caldo già nel 1933. Completato a Praga, l’anno seguente pubblicato a Leopoli, il testo è apparso in patria solo dopo decenni (visto l’ostracismo di Mosca). Ed è tuttora poco conosciuto all’estero. La traduzione in italiano dell’opera è stata realizzata in una tesi di laurea del 2013 da Mariia Semegen, allieva ucraina dell’italianista Carlo Ossola all’Università della Svizzera italiana di Lugano

 

La mancanza di notorietà ha anche ostacolato il tentativo di candidare Samchuck al Nobel già negli anni Trenta insieme a un altro scrittore del suo Paese, Volodomyr Vinnychenko. Eppure Samchuk è stato uno dei più importanti letterati ucraini del XX secolo, tanto da meritarsi l’appellativo di 'Omero ucraino'. Era un autore della diaspora (morì a Toronto). Evitò così il destino subito dall’intellighenzia rimasta in patria, che venne spazzata via. Tra gli altri, furono deportati Ostap Vysnja, redattore della rivista satirica Krokodil e Les Kurbas, considerato il fondatore del moderno teatro ucraino, fucilato nel 1937. Samchuk fu nel mirino sia dei regimi nazifascisti sia di quello comunista. Nel 1946 scriveva di sé: «Ho 41 anni. Sono nato durante la guerra, sono cresciuto durante la guerra, sono maturato durante la guerra. Undici anni di guerra e di rivoluzione, quindici anni d’esilio. quattordici anni di pace. La prigionia polacca, tedesca e ungherese. Tre passaggi di confine clandestini. Testimone delle rivolte in Ucraina, Polonia, Cecoslovacchia, Ucraina Carpatica, Protettorato di Boemia e Moravia, Governatorato Generale, Commissariato del Reich di Ucraina, nel Secondo e Terzo Reich. Sono testimone della loro caduta. Testimone delle due guerre più grandi della storia del mondo. Ho visto gli zar, i re, gli imperatori, i presidenti, i dittatori, Mussolini, Hitler, Stalin, la fame del 1932-33, i campi di concentramento... e l’eterno esilio»

 

Figlio di contadini, al centro della storia mette la vita di una donna - ritratta sin dall’infanzia nell’Ottocento, fino alla morte per fame - in un tipico villaggio rurale. Fu proprio l’opposizione degli agrari, sin dagli anni Venti, alla collettivizzazione e dekulakizzaione a portare alla recrudescenza del regime. Dopo le prime ribellioni ai tempi di Lenin, fu l’arrivo del piano quinquennale di Stalin, basato su industrializzazione forzata e collettivizzazione agricola, a esacerbare la situazione. A farne le spese fu l’identità stessa di un popolo (i suoi ritmi di vita, i suoi riti religiosi). Samchuk lo sottolinea evocando la sparizione della campana del monastero fusa per ottenere metallo. E nel 1930 era partita anche la deportazione di massa di un milione di persone solo sospettate di attività antirivoluzionarie e perché portatrici di un nazionalismo considerato pericoloso. Nel granaio d’Europa la richiesta di ammassare e consegnare i raccolti portò alla scarsità. I contadini iniziarono perciò a nascondere le provviste. Gruppi speciali di attivisti comunisti furono, quindi, incaricati di requisirle. All’inizio del 1933 Stalin inasprì la morsa con una terza richesta di consegna forzata, quando ormai non c’era quasi più nulla. E con misure draconiane per contrastare gli «spudorati furti» per la sopravvivenza. Come la legge "delle cinque spighe" che prevedeva più di dieci anni di carcere o addirittura la fucilazione per chi venisse trovato in possesso di quella quantità di grano.

La gente iniziò a mangiare gli animali e tutti i tipi di piante, anche nocive. Con paglia e bucce di patate confezionava un poco digeribile pane. La fame portò anche a episodi di cannibalismo. Intorno ai villaggi e poi all’intera Ucraina venne applicato, poi - attraverso il sistema delle "tavole nere" - un cordone con il quale il regime impedì ogni commercio e ogni via di fuga. Un segno che la penuria era organizzata. Molte le testimonianze oculari in tal senso come quella del console italiano a Charkiv Sergio GradenigoE dei giornalisti inglesi Gareth Jones e Malcom Nugerridge, che nei loro reportage descrissero l’orrore. Dall’altro lato ci fu anche chi si allineò alla propaganda sovietica, organizzata nei celebri "Viaggi in Russia" per intellettuali ideologicamente selezionati. Come il drammaturgo George B. Shaw. O il Pulitzer Walter Duranty, il quale scrisse che in Ucraina non c’era la fame, ma solo «un’alta percentuale di morti legate alle malattie causate da una cattiva nutrizione». Posizioni che meritarono le critiche di George Orwell. Eppure a lungo si è discusso sulla definizione dell’Holodomor come genocidio. Per farlo rientare - invano - nella convenzione del 1948. Raphael Lemkin, colui che introdusse il concetto nella giurisprudenza internazionale, era convinto che lo fosse. E molte prove sono state portate nei decenni. Dallo storico Robert Conquest, che nel 1986 squarciò il velo di silenzio con Raccolto di dolore (Liberal, 2004) e da altri importanti studi di Anne Applebaum (La grande carestia. La guerra di Stalin all’Ucraina, Mondadori 2019) e Andrea Graziosi (Lettere da Kharkov, Einudi 1991). Tra i romanzi ispirati all’Holodomor è disponibile al lettore italiano Il principe giallo scritto nel 1963 da Vasyl’ Barka (Pentàgora, 2016). 

 

 

​«E la campana del monastero sparì»

di Ulas Samchuck Se non ci fosse un terreno del genere, se non ci fosse così tanto sole, ci sarebbero cresciute solo delle rocce nude. Sui burroni e sui boschi cadde l’inverno. Le case erano avvolte nel fumo che usciva dai comignoli ed i fuochi luccicanti danzavano nelle finestre. Scricchiolava il portone gelato, per la strada camminavano gli ucraini avvolti nelle pellicce. Sotto le loro gambe crepitava la neve. Per le steppe si scatenarono le burrasche. Il forte vento occidentale si era alzato e picchiava con le ali giganti i territori ucraini. Il villaggio forte e millenne si attaccò al terreno nero come una zecca e si nascose dal freddo, coprendosi con i tetti di paglia e con i giardini. Nel villaggio c’era il monastero. Per tanti secoli il suono della sua campana maestosa si diffondeva sopra le case. E quando arrivavano le primavere, quando fiorivano i meli e il tramonto diventava color vino, era allora che il suono serale della campana si strappava dal mare fiorito con forza e rimbombava a lungo sotto le nuvole ciliegiole. Così succedeva per tanti secoli. Cambiavano le persone, cambiavano i tetti, i giardini si infittivano e si allargavano, aravano il terreno, scavavano le pietre, al posto del legno mettevano il mattone, ma il monastero, le campane, le primavere con i fiori, il sole e il canto dell’usignolo rimanevano. Passò un altro inverno. I giardini iniziarono a fiorire, gli usignoli cominciarono a cantare, ma la campana era sparita. Era il piano quinquennale sovietico. Avevano bisogno del metallo per l’industrializzazione. Avevano tolto le campane e le avevano portate via. Il villano staccò finalmente gli occhi dalla terra e non riconobbe il proprio villaggio. - Fratelli! Ci hanno fregati! Difendiamoci! Ma la pistola si era arrugginita da anni. Intorno al contadino si alzò il muro delle baionette. Lo legarono, quel gigante invincibile, lo misero per terra, calpestarono la sua faccia temprata e ruvida, gli slogarono le sue mani callose… Sulle strade d’acciaio correvano i treni in lontananza. Andavano là, dove c’era tanta neve e tanto gelo, dove frusciavano i pini e ululavano gli orsi bianchi. Le Isole Soloveckie - quanto erano terribili e indimenticabili queste parole. Era l’incubo e la ferita dei secoli. Era la tomba milionaria dell’Ucraina. - Mamma, mamma, dov’è il papa? - Shh figlio! Non c’è il nostro papa. L’hanno portato via. Non parlare l’orfano del vivo padre. I vermi neri del terreno ucraino si contorcevano dal gelo, si nascondevano nella neve. Un ragazzo nel carcere intonava: «Mio padre era uno dei Petlura, gli si sono perse le tracce, ola ola». Se la terra non fosse così buona, ci sarebbero solo delle rocce nude. Sopra le steppe volava l’orrore. Le persone come uno stormo di cornacchie spaventate scappavano chissà dove. Cadevano sotto le pallottole, affogavano nelle onde dei fiumi, morivano gonfi dalla fame. (Traduzione di Mariia Semegen)

 

Ma non potevamo rinunciare a una passeggiata con l’«orologio di Konisberg» in Prussia: ci siamo fatti trovare puntuali perché Immanuel Kant viveva di abitudini al punto che gli abitanti della cittadina sapevano esattamente sempre che ora fosse, tanto da impostare i loro orologi proprio su ciò che faceva il filosofo, una di queste l’uscita pomeridiana alle 15,30.

Kant nel 1795 scrisse il primo trattato pacifista della storia, a dire il vero secondo noi ha avuto un eccesso di ottimismo per intitolare il suo libro Della pace perpetua…noi qualche riserva l’avremmo!!

E una manciata di “attimi” successivi, nel 1770 a Stoccarda nasceva un tizio, Hegel, uno di quei giganti del pensiero filosofico che, al contrario di Kant e del suo ottimismo della ragione, era piuttosto “pessimista” e riteneva che un principio illogico e irrazionale guidasse l’universo…

 

E su Versante Ripido uno dei più prolifici blog di arte e poesia che ci ha fatto conoscere la prof. ci hanno colpito le parole di Luca Mozzachiodi:

Due parole dette così, per salvarsi l’anima anche se detesto esprimere opinioni via Facebook, ma veramente, più per sgravare me stesso che perché contino qualcosa.

Non si può pensare che una o un gruppo di potenze, principalmente gli Stati Uniti e i loro alleati, disegnino la carta del mondo, politicamente, militarmente e economicamente (in termini di fame non in termini di punti percentuali Pil) e che ciò resti senza conseguenze.

L’arroganza e la miopia con cui è stata festeggiata e poi per decenni rappresentata e insegnata la fine del mondo comunista e socialista (quel mondo dove nei film non c’è mai il sole e nessuno è mai felice) ci ha resi incapaci di comprendere che esiste un fortissimo nesso tra il modo in cui è stato “sconfitto l’impero del male” e le tragedie che investono quella parte del mondo (non solo l’Ucraina ma anche i Balcani, l’Ungheria, la Polonia della Nato e della Ue con le loro leggi conservatrici e la soppressione di alcune libertà civili). I russi nei film sono doppiati con l’accento “cattivo dell’Est” mentre gli inglesi o i francesi ecc. in perfetto italiano perché in noi sorga inconsciamente una gerarchia dello straniero, perché ogni buon italiano impari a temere l’orda turanica e i cosacchi che si abbeverano in piazza San Pietro (persino la speaker del tg si sbaglia e dice esercito rosso).

Cuba, Venezuela, Libia, Afghanistan, Mali, Niger, Iraq, Palestina, Siria, Iran, solo per limitarsi ai più recenti e noti casi, hanno subito aggressioni militari o economiche dagli Stati Uniti e dai loro alleati Italia inclusa.

Per ragioni di potenza e dominio queste si chiamano diritto e anche quando evidentemente non lo sono nemmeno nella forma (Iraq) è evidente che questo non crea problemi alla Nato e all’ “Occidente” di cui vogliono che ci sentiamo parte.

Criticare la Russia o altre potenze in base a un diritto così “elastico” con l’idea di essere i buoni che rispettano le regole e diciamo impongono la democrazia alle dittature è un pensiero colonialista, razzista e servile.

 

Ciò detto, questo non significa che combattere questo ordine di cose significhi accettare o giustificare la guerra e l’aggressione a danno altrui come quella in corso in Ucraina. Non si tratta di discutere se debbano esserci altri padroni al mondo oltre gli euroamericani, ma di fare in modo che non vi sia nessuno che possa comportarsi da padrone, bandire le logiche di potenza e dominio dai rapporti tra nazioni.

Giustificare l’azione russa (anche in nome della difesa, della sicurezza, della provocazione se non proprio dell’interesse) è logicamente lo stesso procedimento che porterebbe (e del resto per alcuni porta) a giustificare la pena di morte per liberarsi di individui considerati pericolosi o criminali, il linciaggio di un colpevole o il pestaggio di chi ci minaccia in qualche modo.

Difendere l’azione russa sulla base della realpolitik o di una visione giustamente critica dell’Occidente esprime una concezione terrificante della politica e dell’umanità, incapace di pensare a qualcosa di meglio che un equilibrio del terrore e all’uomo come eternamente aggressivo.

Ciò non sarebbe un grande problema, vista la qualità e quantità di propaganda e ideologia occidentale dominatrice che assorbiamo quotidianamente fin da piccoli e che spesso anche inconsciamente riproduciamo, e che i sostenitori di qualcosa di diverso dall’egemonia euroamericana si contano sulle dita di una mano; la questione, almeno per me la delusione a volte, è che sono proprio quelli che si dovrebbero dare (e si danno a volte) la missione di costruire una società diversa e di avere una diversa visione dell’umanità.

Per quanto mi riguarda io non mi pongo il problema di pensare chi abbia “ragione” e trovo anche leggermente disgustoso il continuo riferimento ai danni economici che a “noi” derivano dalla situazione. Mi esercito (perché la verità è che possiamo farlo solo vigilando costantemente sul nostro modo di vedere le cose) a pensare che questo noi non esiste, è artificiale, e che io continuo ad avere più cose in comune con il civile ucraino che si rifugia sotto il ponte, ma anche con il profugo del Donbass o con il coscritto russo che morirà lontano da casa e con la famiglia che dovrà tener conto delle sanzioni nelle spese mensili, che non con i segretari di stato, i ministri, i generali di qualsiasi stato maggiore.

La guerra è fatta dai ricchi sulla pelle dei poveri, per questo motivo occorre battersi per la pace; quelli a cui vorrei parlare, per cui vorrei fare e significare qualcosa sono tutti quelli che non hanno potere di decidere della propria vita, né tantomeno di giocare a risiko sulla carta geografica del mondo.

Ma oltre la marcia, oltre gli ucraini che devono essere salvati e l’aggressione che deve essere fermata, ci sono poi alcune scomode domande che cerco di farmi.

Si sarebbe potuta proprio evitare questa situazione nel momento in cui si ventilava l’ingresso in una alleanza militare concepita come strumento di dominio e in funzione antirussa?

Quanto del fatto che io possa disporre almeno in parte di me e del mio tenore di vita dipende dalla permanenza del mio paese in questa alleanza e in generale dall’equilibrio fortemente diseguale del mondo? “in bene” perché sono cittadino di un paese ricco e potente e altri sono considerati meno importanti di me, ma anche “in male” perché posso essere vincolato a fare la guerra e perché le spese militari che richiede tutto ciò basterebbero ampiamente a sfamare tutte le persone che apparivano nella pubblicità dell’Unicef che il mio governo, siccome non erano in Ucraina, ha confinato nella pubblicità senza diritto ad essere notizia.

Tutte le guerre dunque mi muovono allo stesso modo?

Quante guerre che io non voglio, fatte dai ricchi sulla pelle dei poveri, ricadono, almeno parzialmente, nel il mio interesse materiale?

Esistono dunque degli interessi a cui sono oggettivamente vincolato per la mia posizione storica, sociale, geografica?

Si può evitare non questa guerra, ma la guerra in generale senza eliminare la radice del problema? (l’esistenza di alleanze militari a scopo di tutela degli interessi, la gestione privatistica dell’economia mondiale, il modo in cui produciamo, la distribuzione diseguale delle risorse e della ricchezza, l’utilizzo strumentale e a tratti terroristico del diritto e della diplomazia).

Rispondere a queste domande, che significa anche dare un fondamento oggettivo e non solo soggettivo e sentimentale al mio rifiuto della guerra, è il lavoro di una vita non di una marcia e di marce potremo farne mille milioni.

Se invece pensiamo che il problema di fondo sia ammazzare qualche russo o ucraino in divisa e far paura a qualcuno perché faccia come ci conviene o perché ha violato delle regole e dei patti che non ha stabilito beh a posto, siamo ancora nella preistoria.

Naturalmente si tratta di un ragionamento molto poco immediatamente realistico, tranne forse nell’esortazione a sorvegliarsi, ma la tristezza è anche per questo: a volte le cose giuste non sono realistiche nell’immediato, il problema è non scordarsi che ciò non significa che le opzioni più realistiche siano perciò giuste.

 

E noi?

Noi siamo rimasti a guardare ognuno dritto dritto dentro gli occhi dell’altro, mentre la prof. ci leggeva una poesia dell’attore teatrale Andrea Robbiano. L’unica cosa che abbiamo “sentito” è che ognuno, secondo i propri mezzi, le proprie risorse, deve aiutare. Non abbiamo grandi discorsi da fare, siamo consapevoli del “fare”, di un agire concreto. Però, a scuola noi ogni giorno trattiamo con la parola, con i vocaboli. La prof. ci ha detto che vocabolo viene dal greco e che contiene li verbo   βάλλω che significa lanciare e allora noi alle bombe preferiamo essere lanciatori di parole e per questo motivo abbiamo aperto e chiudiamo questa nostra riflessione con la poesia che ha un potere immenso e, d’altronde Etty Hillesum lo aveva capito bene, aveva sentito di dover spostare l’orizzonte del piano della storia “spezzando” verticalmente il temporale, erompendone: in tedesco si dice Durchbruch verticale, si può tradurre con eruzione… la nostra prof. ci ha contagiato di poesia, noi pensiamo ne sia valsa la pena.

 

 

anche a me succede
come a tutti
di vederci molto chiaro

avere la mia ricetta in tasca
stropicciata
un poco unta forse

la mia soluzione personale
su come curare il mondo

come tutti so
l'origine segreta
del virus sconosciuto

come tutti so
dei complotti o non complotti
delle trame internazionali
di geopolitica
e di gas naturali

conosco
come tutti
ogni falla del sistema
e la sua soluzione
ben certo

ancora però
non ho le parole
con cui parleró
dell'amore a mio figlio
del perdono a mia figlia
e viceversa

non so ancora
chieder scusa
al mio amico adorato

spesso salgo e scendo
dalle scale di casa
frastornato
senza le chiavi della macchina

e ora sono in cucina
e non so più
per quale motivo
io ci sia entrato

per il resto tutto chiaro
limpido
come voi
come tutti

ora mi organizzo
se trovo i calzini
vi cambio il mondo

 

Sono stati citati:

Camillo Sangiovanni, poeta contemporaneo

Marcello Panisi, nota critica al Diario di Etty Hillesum

Etty Hillesum, Diario 1941-‘43

Guido Oldani, poeta contemporaneo

Marco Tarquinio, Avvenire

Gianni Santamaria, Avvenire

Ezio Mauro- Gustavo Zagreblesky, La felicità della democrazia, un dialogo

Kant (1724-1804)

Hegel (1770-1831)

Versante ripido, blog art&poetry Luca Mozzachiodi

Andrea Robbiano, attore teatrale